
Testamento biologico e accanimento terapeutico: il quadro generale e gli aspetti pratici
La riflessione sul testamento biologico nasce su piani diversi: logico, giuridico, etico e filosofico. Vediamo gli aspetti principali del dibattito.
Qualche settimana fa abbiamo introdotto l’argomento del testamento biologico a partire dal principio di autodeterminazione. Principio che riguarda la nostra libertà di accettare o rifiutare le cure che il medico ci offre per tutelare la nostra salute (a patto di esserne informati con correttezza e di avere la capacità di prendere una decisione). Riassumendo, avevamo visto che il testamento biologico è il «documento con cui possiamo indicare fin d’ora quali terapie vogliamo o non vogliamo accettare se in futuro saremo in una condizione dove non potremo esprimere la nostra volontà».
A prima vista questi concetti sembrano creare poche complicazioni. Una volta posto il principio di autodeterminazione, sembra ovvio ritenere che debba essere garantito anche a chi non può esprimere materialmente una scelta.
In realtà, non appena si inizia ad approfondire la riflessione emergono subito aspetti che ampliano e complicano il panorama su piani diversi: logico, giuridico, etico e filosofico. E impediscono di arrivare a una soluzione semplice e universale del problema di fondo: il rispetto della volontà individuale in casi in cui questa non possa essere espressa.
Piano logico: contesto, contingenze e informazioni
Siamo abituati a prendere decisioni tutti i giorni. E ogni decisione è portata in base a elementi diversi: sia personali (interessi, filosofia, cultura generale e bagaglio di conoscenze specifico di ciascuno), sia legati alla contingenza del momento in cui la decisione deve essere presa. A tutti sarà successo di fare qualcosa (e reputarla logica) a cui ci si era opposti per anni, in buona coscienza. Magari, perché condizioni diverse ci hanno fatto esaminare il problema con un’angolazione nuova.
Ecco: se riportiamo questo esempio al testamento biologico, si potrebbe in teoria porre un problema: come fare a essere certi che chi in condizioni normali ha stabilito che sia meglio evitare una terapia, al momento di trovarsi in una situazione diversa non potrebbe cambiare idea?
E ogni decisione dipende anche dal tipo di informazioni che abbiamo sull’argomento, e da come siamo stati in grado di comprenderle. In questo caso, il problema è dato dalla qualità dell’informazione ricevuta.
Sul piano logico, i problemi nascono insomma dall’attualità e dalla consapevolezza di una volontà registrata molti anni prima.
Piano giuridico
Se al piano logico sovrapponiamo anche il piano giuridico, ci rendiamo conto di altri nodi.
Innanzitutto: il principio dell’autodeterminazione ha limiti?
Se ci rivolgiamo alla legge, il Codice Civile afferma che «gli atti di disposizione del proprio corpo non sono consentiti» (articolo 5). E il Codice Penale sanziona l’omicidio, l’omicidio del consenziente e l’istigazione e l’aiuto al suicidio, tutelando il principio di indisponibilità della vita umana, anche della propria (articoli 575, 579 e 580).
Ecco allora che dal punto di vista strettamente giuridico il problema dell’estensione e dei limiti del principio di autodeterminazione assume molta importanza, quando prendiamo in considerazione le cure che sono in grado di mantenere in vita una persona.
E non sorprende che la complessità della questione mantiene attivo da anni il dibattito bioetico.
Così, come un prisma, l’argomento riflette le differenti prospettive (prerogative e competenze) di chi lo osserva. I giuristi guardano soprattutto agli aspetti formali del problema (che validità possono avere simili direttive anticipate, se l’ordinamento giuridico nel quale sono promosse non considera la vita alla stregua di un bene disponibile?). I medici sono preoccupati che sia assicurata la compatibilità del testamento biologico con i doveri deontologici della loro professione, e i bioeticisti discutono sul punto a cui può essere estesa la sfera di insindacabile autodeterminazione del malato.
Testamento biologico e accanimento terapeutico
Il concetto di «accanimento terapeutico» è molto importante per la definizione degli aspetti pratici legati al testamento biologico. La questione dell’accanimento terapeutico nasce come conseguenza del progresso scientifico nel campo della medicina e, in sostanza, con la possibilità di mantenere in vita artificialmente chi altrimenti sarebbe stato destinato a morire.
Difatti il problema del consenso alle cure vitali è recente: la messa a punto di terapie sempre più efficaci e l’applicazione alle cure di tecnologie sempre più sofisticate hanno consentito di trattare condizioni che sarebbe stato impensabile affrontare fino a poco tempo fa. In questo modo, anche il concetto di “morte naturale” ha confini più sfumati, e il suo significato diventa più incerto. Nasce un conflitto tra la necessità della cura e la naturalezza della scomparsa. E insieme, sorgono due problemi, che riguardano
- chi può e deve prendere decisioni terapeutiche nella prospettiva di “fine vita”
- fino a che punto ci si può spingere nel prolungare artificialmente una vita.
Premettiamo subito che dal punto di vista giuridico non esiste una definizione operativa su cosa sia compreso nell’accanimento terapeutico, né tantomeno una«previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico» (Tribunale di Roma, Sezione Prima Civile, Ordinanza 15 – 16 dicembre 2006).
Di solito ci si riferisce all’accanimento terapeutico nel caso di terapie rivolte a chi non ne può (o non ne può più) trarre giovamento, tanto più se procurano una sopravvivenza dolorosa e gravosa.
I tentativi di definizione sono stati diversi. Per il Comitato Nazionale per la Bioetica l’accanimento terapeutico è un «trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica». Qui è evidenziata anche l’eccezionalità dei mezzi impiegati.
Il Codice di Deontologia Medica recita invece che «il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita», mettendo in evidenza l’inefficacia in relazione all’obiettivo beneficio per il paziente (articolo 16).
Anche la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva ) si esprime dichiarando che «quando la prosecuzione dei trattamenti rappresenta una ostinata rincorsa verso risultati parziali senza una utilità effettiva per la prognosi e la qualità della sopravvivenza del paziente, essa si configura come “trattamento inappropriato per eccesso” (comunemente definito come “accanimento terapeutico”)».
Se è vero che non esiste una definizione condivisa di “futilità” del trattamento, (e tantomeno una definizione normativa e giuridica di che cosa debba essere considerato “accanimento terapeutico”) sembra però ampio il consenso generale intorno al concetto che esso non dovrebbe essere consentito. Alcune delle fonti più autorevoli di questo consenso sono riassunte di nuovo dall’ordinanza del Tribunale di Roma del 1996: «il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea».
Perfino la Chiesa Cattolica si riferisce all’accanimento terapeutico nel Catechismo del 1992:«L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’’accanimento terapeutico’. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica §2278), ribadendolo nel Compendio del 2005:«sono legittimi […] la rinuncia “all’accanimento terapeutico”, cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio §471).
Fra le altre voci che potremmo citare, c’è di nuovo il Codice di Deontologia Medica, quando si occupa dell’acquisizione del consenso informato, e specifica l’opportunità di tenere in considerazione anche volontà espresse in precedenza (articolo 35). Oppure quando affronta il tema dei malati inguaribili (articolo 39), sottolineando che in caso di«compromissione dello stato di coscienza il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico».
Concetti simili sono ripresi e sviluppati nei lavori di importanti società scientifiche e professionali come la già citata SIAARTI, che raccoglie proprio i medici specialisti che più spesso si trovano a fronteggiare questi problemi.
Questo breve colpo d’occhio è solo un campione esemplificativo. Ma è utile per osservare che siamo partiti dall’assenza di una definizione operativa “oggettiva” di accanimento terapeutico (quali sono gli atti da considerarsi futili o sproporzionati?) per arrivare a definizioni che affiancano all’oggettività (per esempio: “malattie a prognosi sicuramente infausta” o “compromissione dello stato di coscienza”) un criterio di soggettività nel prevedere la necessità di tener conto delle precedenti volontà del paziente (sia nell’articolo 16 che nel 35 del Codice di Deontologia). La deontologia medica sembra insomma pronta, anche senza una specifica normativa sul testamento biologico, ad accoglierne le istanze.
Naturalmente è sempre presente, più o meno fra le righe, il dualismo tra la tutela della volontà dell’individuo e la tutela di un principio ritenuto superiore a questa volontà: tra il principio di autodeterminazione e quello di non disponibilità del «bene della vita» (o della salute). Allo stesso tempo, il dibattito che riguarda questi argomenti perìcola anche oltre: sul timore che la loro accettazione diventi un’apertura ad altri principi, non acclarati, come l’eutanasia. Ma di questo parleremo più avanti.
Il testamento biologico: aspetti pratici
Finora abbiamo provato a dare uno sguardo d’insieme sul testamento biologico cercando di presentare i presupposti, le prospettive e i nodi principali che ne caratterizzano il dibattito. Con qualche necessaria semplificazione, vista la complessità del tema e tanti aspetti di natura concettuale che porta con sé.
Introdotto il quadro generale, passiamo ai problemi pratici in cui ci si può imbattere nella redazione o nell’uso del testamento biologico.
Innanzitutto, sono emerse due caratteristiche principali del testamento biologico:
- è uno strumento che aiuta chi deve prendere decisioni su una persona che ha perso in modo permanente e irreversibile la sua capacità di decidere
- nella maggior parte dei casi l’ambito in cui è preso in considerazione è quello del periodo terminale della vita.
Quando il testamento è preparato, queste caratteristiche devono essere chiare.
Per quanto possa sembrare paradossale, se un documento è redatto in maniera troppo restrittiva o troppo astratta, poco chiara, o magari in maniera ideologicamente condizionata, si corre il grave rischio di limitare la possibilità di trattamento e di recupero di un paziente che non è ancora in condizioni irrecuperabili.
Facciamo un esempio, e poniamo il caso che nel testamento ci si rifiuta di essere sottoposti a una rianimazione cardiopolmonare. Sono molto diverse le situazioni di una persona che fa questa rinuncia sapendo di essere affetta da una malattia allo stadio terminale, e di una persona che invece è in perfetta salute, e sottoscrive un modulo preconfezionato di testamento biologico pensando all’ipotesi di un trauma futuro o di una malattia neurologica.
Difatti la maggior parte delle pratiche mediche che sono messe in discussione con le proprie direttive anticipate (rianimazione cardiopolmonare, ventilazione assistita, dialisi, chirurgia d’urgenza, trasfusioni di sangue, alimentazione artificiale, terapie antibiotiche), sono fondamentali nella terapia di molte condizioni acute e croniche.
E se non è chiaro che il loro rifiuto si applica solo all’interno di un contesto preciso, dove è compromessa l’integrità della persona, c’è il rischio reale che la la direttiva possa arrecare un danno a chi l’ha compilata.
La redazione del testamento biologico è un momento delicato. Se la sua redazione non è assistita e curata con attenzione, invece di essere un aiuto per orientare le decisioni dello staff medico può diventare una fonte di confusione (e di ostacolo) per il bene del paziente.
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